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Ricordo di Pier Giorgio Berardi


Ringrazio chi mi ha dato la possibilità di scrivere queste note in ricordo di Pier Giorgio Berardi, ringrazio chi vorrà leggerle fino in fondo.
È difficile, per chi ha vissuto per dieci ore al giorno per oltre dieci anni a fianco di Pier Giorgio Berardi, non cadere nella tentazione di usare parole di circostanza e attributi altisonanti. Non lo farò. Non lo farò perché a lui, persona essenziale, non sarebbe piaciuto. Non dirò del professor Berardi, ci saranno altri modi ed altri tempi per farlo, mi preme raccontare della persona, quella che oggi, nell’ambiente universitario come fuori da questo, a tutti manca. Racconterò normali episodi della sua vita quotidiana senza aggiunta di commenti da parte mia, li lascerò a chi legge. Lo farò spesso parlando in prima persona, per meglio raccontare di lui.
Pier Giorgio Berardi ha ricoperto le cariche di presidente dell’Area Didattica in Ingegneria Meccanica, di Direttore di Dipartimento, di pro-Rettore. Queste cariche gli scivolavano addosso da sole, in maniera naturale, per le sue doti; non le ha mai cercate, le ha sempre accettate per il suo forte, a volte autolesionista, senso delle istituzioni. Dopo interminabili riunioni "politiche” cui spesso era costretto, gli premeva tornare nella sua stanza e chiedermi, ansioso dell’esito del problema cui era stato strappato, quasi invidioso della mia libertà di potermi dedicare al lato dell’Università che lui amava, "Allora?”
Voglio raccontare dello studente che timoroso appariva alla sua porta alle 16.30, orario di ricevimento, a chiedere spiegazioni. Perché timoroso? Certamente non era uno studente che lo conosceva, ma qualcuno che incontratolo per i corridoi era stato colpito dal suo "fare da professore”. Mi congedava per potersi dedicare alle spiegazioni di rito: "Ci vediamo tra due minuti”. Sapevo che i minuti non sarebbero stati due. Alle 18.30, ora rituale per il caffè alla "macchinetta” -al bar si sarebbe perso troppo tempo- con sotto braccio lo studente, non più timoroso ma conquistato dal professore: "noi andiamo a prendere un caffè, lei che vuole?”
Voglio raccontare della mia decisione di iscrivermi in palestra due anni fa. "È giusto, non possiamo stare seduti dieci ore”. Quando alle 19.45 lo salutavo per andare via, spesso non ricevevo risposta: era, avvolto dal pennacchio di fumo dell’immancabile sigaretta, assorto con matita e carta nei suoi pensieri. La risposta mi arrivava in ritardo, la sentivo quando ero ormai nei pressi dell’ascensore. Più spesso avevo già imboccato le scale: "Rino, Rino”, risuonava ferma la sua voce nell’edificio semideserto, che proprio per questo accompagnava le ore di lavoro più proficue. Mi rincorreva "Ci sono, ma quanto siamo fessi! Ascolti…”. Lo interrompevo: "La palestra…”. "La palestra già… è vero. Allora l’accompagno al parcheggio così parliamo per strada.”. In quel mese in palestra per oltre la metà delle volte non ci sono più andato. Il mese successivo pensai bene di non iscrivermi.
Voglio raccontare delle bugie dette alla sua amata famiglia, quella che aveva trasferito dal centro di Napoli a cinquecento metri dall’Università di Salerno, in un paesino di tremila anime, per poter vivere costantemente l’Università. Bugie dette per rubare mezz’ora alla mezz’ora già rubata alla sua famiglia, tempo da dedicare a matita e foglio con la solita sigaretta: "Rino telefoni, dica che sono in riunione con il Rettore.”.
Voglio raccontare delle lacrime versate dalla signora delle pulizie -aveva sempre un pensiero per la figlioletta- come dall’addetto alla vigilanza che la sera veniva letteralmente a buttarci fuori "professo’ mi dispiace, dovete uscire, dobbiamo chiudere”.
Voglio raccontare degli studenti del corso di Fisica Tecnica di qualche anno fa, del loro desiderio tante volte espresso di volere, a fine corso, offrire una pizza al professore. "Se lo vorrete ancora, dopo gli esami”, lui rispondeva, quasi certo che allora il loro desiderio sarebbe sfumato. Non fu così. In sessanta superarono il pre-appello, in sessanta ribadirono la loro richiesta aggiungendo "Lo abbiamo chiesto solo a lei”. Non potendo proprio rinunciare di fronte a tanta insistenza propose di andare tutti a prendere un gelato per abbreviare i tempi ".. mia moglie già non la vedo mai”, si giustificava. Agli studenti bastò. I ragazzi si stavano appena accingendo alla colletta quando il proprietario del bar li fermò: "Ha già provveduto il professore Berardi”.
Voglio, infine, raccontare di tre suoi ex-studenti, deduco dalla loro età che fossero tali, che, credendo di non incontrare nessuno, alle 20.30 del lunedì successivo alla sua scomparsa, domenica dodici novembre duemila, vennero a deporre innanzi alla sua porta una pianta con fiori bianchi: "Il professore Berardi era tutto tranne che un professore”. È una frase che può significare tutto e niente, ma le lacrime di quei ragazzi non lasciavano dubbi.
Spero che queste brevi note abbiano ravvivato il ricordo di Pier Giorgio Berardi a chi lo conosceva ed introdotto una persona esemplare a chi non lo conosceva, una persona perbene. Così a bassa voce, ma fermamente, lo avevo sentito definirsi tempo fa, così lo ricordo io e, aggiungo, non posso farne a meno, una persona che non faceva fatica a farsi apprezzare e a farsi voler bene da chiunque, per la sua umanità e semplicità, una persona contagiosa nel trasmettere entusiasmo per il lavoro che amava.

Gennaro Cuccurullo


Dal bollettino dell’Unione Italiana Termofluidodinamica, dicembre 2000